H - HABITAT St.1 Ep.2
di Giuseppe Bambace
Giuseppe BAMBACE
Data: 19-12-2024
HABITAT St.1 Ep.2
Habitat, l'insieme delle condizioni ambientali in cui vive una determinata specie. Viene inaugurata la nuova serie a diffusione mondiale, che narra di un mondo tra i tanti possibili che offriremo alle prossime generazioni, visionaria, ironica, in cui finzione e realtà si intrecciano, si confondono, mettendo a nudo le ansie più recondite che sottendono i quesiti fondamentali dell’esistenza.
Chi siamo, da dove veniamo e soprattutto dove crediamo di andare?
Nell’episodio precedente il predatore umano aveva antropizzato in modo invasivo gli ecosistemi, anche quelli negli angoli più remoti del pianeta, provocando lo squilibrio delle condizioni ambientali, che fino ad allora avevano regolato lo sviluppo di ogni specie animale e vegetale. Di conseguenza, a causa dello spostamento verso nord delle fasce climatiche, anche il genere umano era stato costretto a mutare le proprie abitudini quotidiane, attività economiche e persino organizzazione sociale.
Agricoltura e allevamento ne erano il segnale più evidente. Olivo vite e agrumi erano diventate le coltivazioni tipiche dell’Europa settentrionale, i cui prodotti di punta erano l’olio aromatico del mar Baltico e il vino passito della Baviera, mentre sui banchi dei nostri mercati erano esposti frutti tropicali, carne di animali esotici, pesci dai colori sgargianti. Le popolose comunità asiatiche e nord africane presenti nella società multi etnica, avevano introdotto nuovi generi alimentari, tra cui insetti e rettili, oltre a profumate spezie dagli aromi inebrianti.
Nelle casette SMAT era razionata ad ore prefissate l’acqua prodotta nei dissalatori dell’isola d’Elba, che in conformità al DDL sicurezza erano presidiati strettamente dalle autorità militari. Tutte le attività economiche erano regolamentate dal Super Stato, che disciplinava doveri e compiti, per assicurare un’organizzazione sociale efficiente e sicura, libera da pensieri e parole.
Nel nuovo episodio l’uomo di domani: i progressi della scienza, i nuovi habitat e le proiezioni di scenari futuri. Notizia di apertura: il pianeta ha la febbre. Subito i rappresentanti delle nazioni si riuniscono in assemblea, per dibattere seriamente della medicina necessaria per curarla. I risultati di settimane di dibattito COP/FLOP sono equiparabili agli sforzi inconcludenti di uno stitico sul water. Intanto laboratori universitari, in cui lavorano in silenzio scienziati di provata competenza, pubblicano studi, divulgano dati che meriterebbero clamore mediatico, ma che sembra debbano rimanere confinati nella cerchia ristretta delle riviste di settore a tiratura limitata. Ma qualche voce si eleva al di sopra delle reti a maglie strette della comunicazione ufficiale. Come in un puzzle composto da tessere apparentemente incoerenti, incomincia a delinearsi un quadro d’insieme, che risponde ad un denominatore comune: stiamo entrando in una realtà inesplorata, che non risponde ad alcun modello registrato in precedenza, per frequenza e intensità dei fenomeni, uno scenario meteo che avrebbe disorientato perfino la chiarezza espositiva e l’elegante dizione del colonnello Bernacca.
Il Politecnico di Zurigo ha sviluppato lo studio City pairing, con cui si può simulare la temperatura di una città tra 30 anni. Sulla base dell’ipotesi ottimistica di stabilizzare le emissioni al livello attuale, ne risulta che Torino avrà il clima torrido del Texas, Madrid è equiparata all’odierna Marrakesh, Londra a quella di Barcellona. La fascia del sub Sahel sarà inabitabile per avverse condizioni ambientali, interessando un territorio che comprende 11 nazioni per un totale di 2 miliardi di abitanti. Secondo L’università del Maryland che ha condotto un progetto per conto di National Geographic, nell’arco di 50 anni, circa 90 città nel mondo vivranno condizioni mai sperimentate prima da nessun’altra parte del pianeta, tra temperature costanti oltre i 50 gradi, monsoni ripetuti nel tempo e altri eventi estremi. L’Università di Cambridge stima che dal 1970 ad oggi il numero di animali presenti sul pianeta si è dimezzato.
Quindi le previsioni sono sempre più teoriche, ipotetiche, ma tutte concordano nell’abbreviare il periodo di raggiungimento del limite di deformazione permanente, che nell’episodio precedente sembrava proiettato in una dimensione temporale lontana, quasi remota. Soprattutto se l’incremento di quantità di calore, quindi di energia, seguirà una progressione più rapida di quella aritmetica ipotizzata oggi.
Ma le amministrazioni rimangono sorde e cieche a queste previsioni, nonostante comportino implicazioni sociali ed economiche. Anzi agiscono in direzione opposta. Li vediamo nella nostra città attingere ai prestiti europei per acquistare asce e motoseghe e trasformarsi in squadre di boscaioli.
Alla luce di questi dati, tra i possibili scenari del futuro, sembra avere maggiori probabilità di successo uno degno del ciclo Disaster Movie, spettacolare ed infausto, per catturare l’attenzione del pubblico televisivo.
Resi inabitabili dal calore crescente, vasti territori delle aree tropicali del nostro emisfero daranno origine ad un esodo epocale di miliardi di persone verso nord, alla ricerca di condizioni di sopravvivenza. Con buona pace di coloro, che oggi gridano all’invasione per 158.000 ingressi registrati nel 2023.
La superficie terrestre sarà inospitale, ormai ustionata come una ferita aperta, a causa della deforestazione perpetrata su scala industriale e sarà battuta da venti impetuosi e tempeste improvvise. Le città delle zone interne appariranno come fantasmi travolte dall’avanzamento dei deserti, mentre quelle costiere saranno sommerse dall’innalzamento degli oceani. Parafrasando un popolare film comico, il simbolo delle macerie della civiltà industriale sarà un gigantesco ingorgo sulla Salerno Reggio Calabria di auto elettriche ormai ridotte a carcasse, rese inutilizzabili dalle batterie scariche e dall’esaurimento delle miniere di litio.
Che ne sarà dell’uomo di domani: le Nazioni tradizionali scompariranno, ingegneri e architetti del pianeta collaboreranno per progettare e realizzare città verticali, che anziché essere rivolte verso il cielo si svilupperanno nel sottosuolo, attraverso imponenti scavi di palazzi e strade, mutuando l’idea dalle strutture dei formicai.
Da questa soluzione abitativa non sarà immune nemmeno l’élite della società, che alle prime avvisaglie del disastro aveva costruito ambienti provvisti di ogni comfort protetti da cupole ermetiche, ma che aveva dovuto abbandonare, perché non offrivano più riparo dalle inasprite condizioni climatiche. Nei sistemi di gallerie ventilazione ed illuminazione saranno assicurate da dispositivi mossi a pedali su turni che copriranno le 24 ore. La dieta sarà a base di tuberi e di tutto ciò che risulta coltivabile sottoterra, l’acqua ricavata spremendo le zolle umide nelle profondità del suolo, latte e carne saranno solo un rimpianto, perché gli unici animali sopravvissuti all’estinzione saranno insetti e parassiti.
L’economia sarà fondata sul baratto, ciò che resterà del sapere sarà tramandato oralmente, la sanità sarà affidata alle leggi della selezione naturale. Malgrado ciò, l’uomo continuerà ad essere preda delle sue pulsioni bellicose, anche se le inevitabili guerre tra fazioni saranno combattute a colpi di pietra, per mancanza di acciaio, ottone e combustibili causata dall’esaurimento delle risorse naturali.
Dissolvenza, scorre la didascalia “Uno scenario differente può essere ancora scritto, nel caso in cui l’umanità riesca a produrre uno scatto di lungimiranza, riscoprendo solidarietà e compassione verso i suoi simili e recuperando un rapporto paritetico con la natura”. Innanzitutto ricorrendo all’aiuto valoroso della tribù degli alberi, restituendo loro il rispetto che meritano quali esseri viventi presenti sul pianeta da milioni di anni, mentre l’homo sapiens ne può vantare appena centotrentamila. In concreto sostituire la motosega con la vanga, per arricchire gli habitat umani di quanti più esemplari possibile, esaltandone le qualità formidabili, che contrastano gli effetti del calore crescente, ospitano una moltitudine di specie e si rivelano terapeutiche per gli affanni dell’anima.
Finale aperto, lasciato all’immaginazione e fantasia dei protagonisti. Nel dubbio, la mia conclusione è la stessa dell’episodio precedente: come recita il tema del bambino di Arzano, io speriamo che me la cavo!