MONDOVÌ e il MONREGALESE

di carla baudino.


MONDOVÌ e il MONREGALESE
Carla 

in lotta per la libertà.
24-25 aprile 1945: scocca l’ora della liberazione.
L’ora dell’insurrezione generale scattò tra il 24 e il 25, a mezzanotte, con un messaggio in codice: “Aldo dice 26 x 1”.
E vennero i giorni attesi e sofferti del riscatto e della liberazione. Restava da badare ai tedeschi.
“Fra pochi di’ si cala al piano”, si cantava sulla Tura (una montagna del Monregalese), e gli altri monti facevano eco. Gli occupanti cominciavano a temere la disfatta, ma reagivano accentuando la ferocia.

Mondovì Piazza, Borgo Santa Croce 12

Quel primo pomeriggio di un giorno d’aprile del ‘45, non ricordo né il giorno né l’ora precise, il sole, penetrando dalle finestre, incominciava a scaldare i cuori e le case, nonostante il momento fosse tragico oltre ogni immaginazione.
I tedeschi in fuga, oppressori, pieni di livore e di desiderio di vendetta, si stavano ritirando. Ma quanto sangue avrebbero lasciato dietro di sé!
Nel pomeriggio un boato proveniente da Carassone (Mondovì è suddivisa in tante piccole borgate) fece capire che era saltato il primo ponte. A Breo intanto transitavano colonne su colonne in fuga, in una confusione nervosa e rabbiosa.
Una staffetta partigiana aveva fatto in tempo a diffondere nelle case la voce che i tedeschi stavano bussando alle porte del borgo per scovare qualche civile da giustiziare e che, se ne avessero incontrato anche uno solo, in strada o in casa, non lo avrebbero risparmiato. Forse anche una donna, forse anche un bambino, ma qualcuno da fucilare lo avrebbero certamente trovato.

Bisognava fare in fretta. Mio padre, uomo di polso, radunò tutta la famiglia, undici persone, compresi vecchi e neonati (abitavamo tutti nella stessa casa, Borgo Santa Croce numero 12), e li obbligò a sistemarsi alla bell'e meglio sulle scale che accedevano alla piccola cantinetta scavata nel tufo.
L'odore di muffa e il freddo erano pungenti ed insopportabili, ma nessuno si oppose, né chiese spiegazioni su quella frettolosa, inconsueta trasferta in cantina, perché si capì da subito che ne andava di mezzo la vita di ognuno di noi.
Dico noi, perché io ero ancora in fasce (i bambini si fasciavano fin verso i due anni di età per farli crescere con le gambe dritte), ma per i racconti ripetuti e sentiti mille e mille volte sono sempre stata convinta di aver partecipato a quel nascondimento in modo cosciente.
Fu un’operazione veloce e non passò tanto tempo da quando, uno sull'altra, entrammo in quell'antro, sistemandoci per come possibile sui gradini umidi e scivolosi.

Mio padre, uomo di polso ma cuor di leone, faceva da sentinella con l'orecchio pronto a carpire ogni minimo rumore proveniente dalla strada.
Ma così ammassati, in un tacito silenzio, i vecchi avevano miracolosamente smesso di tossicchiare, i bambini avevano smesso di frignare, lo zio Giovanni aveva smesso di dire le sue mille ave maria.
Eravamo vite sospese.

Quand’ecco, a metà pomeriggio, verso borgo Santa Croce, ci fu il passaggio di gruppi di soldati tedeschi in bicicletta.
Furono accolti da colpi di fucile e di mitraglia. I tedeschi si buttarono al riparo nei fossi e risposero con una sventagliata di Mayerling che colpirono a morte un giovane e ne ferirono un altro.
Poi continuarono a sparare verso la Piazza, verso via Vico, non appena riuscirono a raggiungere le case presso il peso pubblico, a Borgo Santa Croce appunto.

Ad un tratto un suono inconfondibile risuonò nella strada; lo si riconosceva purtroppo bene anche da lontano.
Erano gli altri tedeschi appiedati che si stavano ritirando, il tetro rumore dei loro scarponi chiodati ne scandiva il passaggio.
Sopraggiunsero altri tedeschi ancora che si acquattarono dietro il bastione della curva.
I tedeschi, ancora convinti del loro potere sulla cittadinanza, gridavano, impartivano ordini secchi, perentori alla gente nascosta nelle soffitte, nelle cantine, nei posti più impensabili, di uscire, di consegnarsi immediatamente.

Silenzio!
Noi, sulle scale della cantina, quasi non si respirava per paura che anche il minimo alito avrebbe potuto segnalare la nostra presenza dietro quella porta fatta di cartone.
Le abitazioni del borgo affacciavano sulla strada principale. Erano abitazioni modeste, per cui anche le porte di ingresso erano fatte con materiale più di figura che di sostanza.
Poi i colpi del calcio della pistola su quelle porte rimbombarono una, due, più volte, non so quante volte, una eco lugubre si sparse lungo tutta la strada.
Neanche questo particolare del numero dei colpi è rimasto impresso nella nostra mente. Cancellato.

Davanti alla porta di casa nostra il tedesco aggressore, pieno di desiderio di vendetta, stette alcuni attimi come in attesa, indeciso: mise la pistola nella fondina e tirò dritto.
Le ave maria di zio Giovanni avevano sortito il loro effetto.

Erano rimasti in tanti i tedeschi a stanare quei bastardi di partigiani cui dovevano la resa; la furia tedesca si spostò sui civili che avevano sbirciato tutto dalle finestre, col batticuore.

Dopo un tempo che non saprei quantificare (anche questo è uno di quei particolari che misteriosamente non è mai stato chiarito) mio padre, uomo di polso, coraggioso, che aveva già partecipato alla guerra del ’15-’18, classe ’99, e ne era scampato incolume, aprì timidamente la porticina e, come tanti topi usciti dalle fogne, ad uno ad uno uscimmo tutti sulla strada: dapprima i nonni, i più malconci, i due zii celibi, le due zie nubili, noi quattro figli, mia madre, mio padre sulla porta a proteggere la nostra uscita.
Eravamo liberi: “quando si dice che non era ancora arrivata la nostra ora”...

Ma a quel punto la furia tedesca non si placò, si spostò sui civili, e fu ancora morte.
Di quella rabbia rimasero vittime, presso il peso, Stefano Barberis e Luigi Mamino detto il “Muto”.
Il “Muto” era uno stalliere sordomuto, nostro vicino di casa, un uomo mite, che non si era accorto di ciò che gli stava accadendo attorno.
Che aveva capito lui di tedeschi in fuga, di partigiani che gli stavano dando la caccia, di sparatorie, di fucilazioni di massa?
Per questo non aveva cercato nemmeno di ripararsi: venne barbaramente trucidato dalla furia vendicativa dei tedeschi mentre ignaro portava il fieno ai suoi animali nella stalla.

Alle 11 di quella stessa domenica, il vescovo Briacca, che in tutti quei drammatici mesi si era dato molto da fare per contenere gli orrori della lotta, celebrò una messa solenne con Te Deum di ringraziamento.
Il grosso dei partigiani era però a Cuneo per una grande sfilata, bissata nel pomeriggio a Mondovì, in un tripudio di colori, di fazzoletti.
La sera, poi, via le schermature dalle finestre, basta oscuramento!

Intanto taluni cittadini, sospettati di collaborazionismo con gli occupanti, vennero stanati e mostrati dalla Loggia del Comune di Mondovì a una folla eccitata e rumoreggiante, quindi tradotti in carcere.
A una ventina di donne e ragazze, che per voce di popolo si erano compromesse coi nazifascisti, davanti a una folla inferocita, vennero rasati i capelli.
Nel pomeriggio di quel primo giorno di libertà, si pensò anche ai sei civili uccisi la sera prima sulla collina: e fu il primo di una lunga serie di funerali affollati e commossi.

Purtroppo, però, ogni paese vicino ha la sua lapide con nome, cognome e anno di nascita delle incolpevoli vittime: erano tutti giovani.
Mondovì ottenne la Medaglia di Bronzo.

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