D - DESERTO
di stefania bambace
Data: 13-03-2025
DESERTO
La prima, istintiva associazione è l‘arsura, la sete, quella immediatamente successiva è l’incedere pesante, a fatica.
È questa, credo, l‘immagine più comune ed immediata evocata
dalla parola deserto, in ogni caso è senza dubbio la mia.
dalla parola deserto, in ogni caso è senza dubbio la mia.
Ho un unico ricordo di un deserto fisico, il solo di cui ho fatto esperienza. In viaggio nell‘Outback australiano, a metà degli anni novanta, insieme con il mio fidanzato di allora, oggi mio marito, ho percorso chilometri e chilometri in macchina lungo una linea orizzontale che sembrava non finire mai, costeggiata da entrambi i lati da una terra desolata di un accecante color rosso. Per spezzare la monotonia del paesaggio e non cedere alla tentazione del sonno cantavo a squarciagola il ritornello di A HORSE WITH NO NAME degli America, in the desert you can remember your name (più o meno traducibile con nel deserto puoi ricordarti il tuo nome, quasi ad intendere puoi ricordare chi sei. Sembrava una premonizione per la mia vita futura).
Nella vastità di quella desolazione ci apparve quasi improvvisamente, in tutta la sua maestosità, la montagna di Ayers Rock, il monte sacro degli aborigeni.
Una roccia color rame infuocata dal sole, che al pari di un‘immensa torcia andava accendendosi proprio al sorgere dell‘aurora. Contemporaneamente, al freddo della notte si sostituiva repentinamente un caldo secco di cui erano ambasciatrici le moltitudini di grandi mosche insolenti e fastidiose da cui eravamo attaccati e potevamo scacciare solo evitando di restare fermi. Una condizione spiacevole che, in tutta la sua banalità, pareva l‘emblema di una legge fondamentale: nel deserto non è dato arrestarsi, occorre avanzare, procedere, per non soccombere ad agenti avversi. La mia memoria del deserto si ferma a quella lontana vacanza, il ricordo di un luogo rupestre, di una luce incandescente, di sensi stregati dalla fascinazione, del riconoscimento della propria insignificanza di creatura umana.
Ho letto di deserti nei romanzi, ho indagato deserti nelle poesie, ho visto deserti cinematografici. Soprattutto, però, ho attraversato deserti simbolici e credo di non aver ancora smesso.
La mia narrazione non può che coinvolgere il mio cammino personale, ma sono certa che nessuno è esente dal proprio deserto.
Una serie di eventi rocamboleschi nella mia vita mi ha condotta in quel luogo dell‘anima apparentemente ostile, mortifero. Sì, mortifero, perché ero morta a me stessa, tutto ciò che era dietro a me era ormai fuori da me, non era più. Ostile perché quel senso di perdita comprendeva, oltre le fragili certezze passate, anche le certezze future.
Era il tempo dell‘azzeramento, dell‘abbandono del conosciuto per intraprendere un viaggio all‘insegna dell‘ignoto.
Il deserto bisbiglia, si dice, ma bisogna saperlo ascoltare. Comprendevo di trovarmi in una terra di mezzo, una tappa ineluttabile e necessaria di rinnovamento. Dovevo quindi
mettermi in viaggio, dare avvio ad un‘esplorazione che ignoravo dove mi avrebbe condotta, ma che speravo sarebbe approdata ad una nuova coscienza di me. In the desert you can remember your name. Più che un ricordo, un‘illuminazione. Ma per camminare nel deserto bisogna essere leggeri, lasciare i pesi inutili di attaccamenti effimeri, avanzare sempre per evolvere, non rischiare di rimanere intrappolati in un sé sempre identico.
Un proverbio Tuareg recita così:
“Dio ha creato le terre con i laghi e i fiumi perché l’uomo possa viverci… Ed il deserto affinché possa ritrovare la sua anima” Una riflessione che lascia evaporare una profonda saggezza.
È in questo luogo-non luogo che si svolge la mia faticosa ricerca quotidiana e vorrei giungere, come i Berberi, a percepire questa landa isolata come paradigma di libertà,
indipendentemente dalle contingenze e dalle avversità esterne.
Si sa che il deserto è anche un potente simbolo religioso, dalle tentazioni cui è stato sottoposto Gesù nella sua permanenza per 40 giorni ai 40 anni di viaggio verso la terra promessa del popolo ebraico. Tutte e tre le religioni abramitiche sono profondamente legate al cuore del deserto e la sua componente spirituale è presente in moltissime tribù autoctone. Nelle prove del deserto la ricerca dell‘umano e del divino convergono, si incontrano in modi profondamente trasformativi.
Non so quanto durerà il mio personalissimo deserto. Leggo di leggende del Sahara che spiegano l‘origine delle oasi e dei miraggi come un dono di Dio all‘umanità per ricordarle quanto lussureggiante fosse quella terra prima che gli uomini si combattessero tra loro, disubbidendo al comando di Dio.
Dio disse loro di agire sempre in giustizia, altrimenti per ogni loro empietà, avrebbe lasciato cadere un granello di sabbia. I primi granelli non furono notati, i successivi furono
sottovalutati poiché si pensò che troppi sarebbero stati gli anni necessari prima che quella polvere leggera potesse arrecare danno. Gli uomini litigarono, combatterono tra loro e …
la sabbia finì col seppellire campi e pascoli, ruscelli e vita. Dio si dispiacque, ma ritenne importante che gli uomini non scordassero il male compiuto e la meravigliosa terra perduta, ma desiderassero ritornarvi compiendo il bene. Per questo punteggiò il deserto di radi isolati palmeti e fece sì che si ripresentassero all’orizzonte al guardo dei viandanti, come in un sogno a occhi aperti, come le immagini apparentemente illusorie che oggi chiamiamo miraggi.
Ecco, nel mio percorso non sono rare le oasi ed i miraggi. Hanno tanti nomi. Tutte concorrono al buon esito della mia ricerca. A quell‘acqua mi disseto, a quelle visioni mi proietto verso una meta per la quale, chissà, il viaggio sarà valso la pena.