V - VERCELLI
di giuseppe bambace.
Giuseppe BAMBACE
Vercelli è una città sorprendente. Associata comunemente alla tradizione agricola di coltivazione del riso, in realtà vanta una storia millenaria. Senza dilungarmi in un noioso trattato storico culturale, mi limiterò a citare alcune gemme di levatura mondiale.
Città dove fu insediato il primo vescovo Eusebio, protagonista della cristianizzazione delle terre subalpine nel terzo secolo d.c. evangelizzazione agevolata dalla traduzione dei vangeli dall’originale in lingua greca al più diffuso latino, testimoniata nel manoscritto originale custodito nella biblioteca capitolare. Museo dove si può ammirare anche il Vercelli Book, una delle 4 copie esistenti al mondo del primo manoscritto in anglosassone antico redatto in epoca medioevale, una vera rarità donata alla città probabilmente da un’autorità religiosa di spicco in transito a Vercelli, che in quel tempo era diventata crocevia privilegiato del pellegrinaggio lungo la via francigena di fedeli proveniente da tutta la Cristianità.
Oltre alla cattedrale dedicata a S. Eusebio, Vercelli annovera tra i suoi tesori architettonici il primo monumento in stile gotico del Piemonte, la Basilica di S. Andrea, un raro esempio di stile romano-gotico; la Chiesa di S. Cristoforo in stile rinascimentale, abbellita col prezioso contributo di scultori e pittori del calibro di Filippo Juvarra e Gaudenzio Ferrari.
Recentemente Vercelli ha scoperto una vocazione artistica, promuovendo mostre di arte contemporanea di grande rilievo internazionale, presso il polo espositivo L’Arca e stipulando contratti con la prestigiosa associazione Guggenheim, per mettere in mostra i capolavori della ricca collezione.
Di fronte all’esposizione di tali fulgidi tesori, molto umilmente sussurro che Vercelli è anche la mia città natale. Infatti dopo aver viaggiato in treno per diversi mesi nel pancione di mamma verso Santhià dove lei insegnava, vengo alla luce in un caldo agosto del 1959.
In realtà non ho trovato le condizioni climatiche di quei giorni, perché l’archivio cosiddetto storico del sito Il Meteo si ferma al 1973, dato che mi ha fatto sorgere il dubbio di appartenere ad un periodo preistorico, non solo dal punto di vista climatico.
Sono uno dei 579 nati dell’anno, nel periodo in cui l’esplosione demografica aveva contagiato anche Vercelli, ma mi distinguo fin dai primi vagiti, lottando insieme con mamma per dare un seguito all’evento traumatico dell’abbandono del comfort caldo del liquido amniotico.
I ricordi dei primi anni sono estratti dalla memoria dei racconti dei miei genitori. La prima abitazione è in via Massaua, come ho saputo più tardi a due passi dallo stadio Robbiano della mitica Pro Vercelli. Conosco il viale della Rimembranza, nelle passeggiate quotidiane in carrozzina, alternate a grandi biberon di latte in polvere e biscotti Plasmon, succedaneo del latte che mamma non poteva offrirmi. Mi hanno detto che ero sorridente e gioviale con tutti, dal piccolo balcone sul retro salutavo il Sig. Corino titolare dell’officina sottostante, che nel mio linguaggio traducevo con Pitò. Per tutti io ero Pinuccio, anche qualche anno dopo, quando traslocammo in un alloggio più grande in via Giovine Italia, perché nel frattempo avevo accolto con gioia il fratellino Paolo.
Mi rendo conto di indulgere nel sentimentalismo, ma mentre scrivo i ricordi riaffiorano nitidi, emergono le persone protagoniste della mia infanzia, che mi infondono un sapore di buono, un senso rassicurante di protezione, di certezza che nulla sarebbe cambiato.
Innanzitutto i nostri vicini la famiglia Bernascone, in particolare la signora Maria, che ha aiutato mamma a superare momenti di sconforto, seguito al trasferimento da un paesello della Calabria. In un’occasione l’ha anche aiutata a ricucire il panico che l’aveva tramortita, quando mi sono presentato a lei grondante di sangue per una ferita alla testa, procuratami saltando da un mobile e atterrando su un modellino di camion di metallo. La cicatrice dove non sono mai ricresciuti i capelli è ancora lì a testimoniarlo. I miei momenti con la signora Maria sono richiamati nell’immagine del dolce sorriso, il suono della sua voce affettuosa e la delizia ineguagliata dei suoi creme caramel, doti culinarie ereditate dalla cara figlia Carla, che tuttora periodicamente mi fa dono delle sue creazioni con le scorzette di cioccolato e arancia.
I compagni di gioco nel cortile, con cui rincorrevamo un pallone per interi pomeriggi, ma solo dopo aver terminato i compiti. Massimo Rosa che si pavoneggiava accanto ai suoi levrieri afghani, Gigi Oliva, col quale è rimasta mitica la disputa dai rispettivi balconi di una tiepida sera del 1° giugno 1967 sulla vittoria dello scudetto della mia squadra all’ultima giornata ai danni dell’eterna rivale per cui tifava lui, la prima innocente simpatia femminile Daniela. Della compagnia faceva parte anche Ivano, un bimbo sordomuto del quale nessuno avvertiva la diversità e col quale vivevamo il rapporto in modo del tutto spontaneo e naturale.
Le maestre dell’asilo, o meglio del Giardino d’infanzia, dove imparavamo i primi rudimenti dell’alfabeto, tra tanti momenti di gioco attorno alla grande vasca del giardino con le barchette di plastica colorata, o calzando sul braccio i burattini, con i quali improvvisavamo un piccolo spettacolo in libertà espressiva, sentendoci protagonisti di teatro, oppure camminando in cerchio nella grande sala per cantare filastrocche allegre. Tutti rigorosamente col grembiule bianco e fiocco azzurro.
La maestra Monteleone, la chioccia che governava una classe numerosa nella scuola elementare Galileo Ferraris di Piazza Cesare Battisti, il primo compagno di banco Paolo Ricci, unico della classe che portasse la merendina confezionata, che ogni tanto gli sgranocchiavo di nascosto. Il mio compagno Paganin con cui condividevo le corse a perdifiato all’uscita di scuola lungo il viale antistante, dopo aver lanciato oltre i gradini la cartella, che mamma pazientemente raccoglieva.
Il mio amico Andrea Pozzolini, distrutto ogni qualvolta trascorrevamo il pomeriggio insieme, tanto che rientrato dal lavoro il papà Renato, nonché mio padrino, affermava senza esitazione oggi c’è stato Pinuccio.
La cara tata Carla Fonsato, che si prendeva cura della mia vivacità e della caparbietà di mio fratello. Memorabili le gite in bicicletta lungo corso Garibaldi fino ai giardini davanti alla stazione, dove ci attendeva il trenino che nel suo percorso incantato entrava in un breve tunnel fatto di lamiera colorata, ma che a noi appariva come un’emozionante galleria, simile a quelle che percorrevamo ogni estate per raggiungere la nonna al paesello sullo stretto. Ma neanche Carla riusciva a domare del tutto la mia effervescenza, quando ho allagato la casa, simulando le onde del mare nella vasca da bagno, o quando per una punizione che ritenevo ingiusta ho rotto il vetro della cameretta con un pugno, rischiando di tranciarmi l’intero braccio. Ricordo la sua disperazione quando al ritorno di mamma le ha detto con voce rotta dallo spavento “Non lo rimprovero più, Pinuccio può fare quello che vuole”.
La suora del catechismo, figura apparentemente severa, che imponeva il suo carisma dall’alto della sua notevole statura, ma che sapeva essere affabile durante le caotiche partite a pallone che organizzava in cortile prima di congedarci al termine della lezione ed a cui prendeva parte anche lei con passione contagiosa.
Il mio amico Ernesto Gasparro, con cui ci divertivamo a giocare ai salti sui sacchi di riso nella riseria nel quartiere Cappuccini.
Gli amici di famiglia, con i quali si condividevano incontri domenicali. Indimenticabili i signori Barale, le allegre pedalate in triciclo sul terrazzo di via Failla, che precedevano pranzi della tradizione, panissa o risotto con le rane a seconda della stagione e conclusi con la squisita tartufata della pasticceria Follis. Ai fornelli la Iuccia, altra figura di riferimento di quegli anni sereni, dal cuore immenso e mani sapienti, dal carattere mite ma determinato al tempo stesso.
Altrettanto allegre erano le domeniche dai Signori Andorno di Crescentino, gli inevitabili giochi al pallone col figlio Massimo mio coetaneo, giornate di barzellette e di sano umorismo, le massime spiritose del nonno balbuziente, tra le quali spiccava quella in latino dialettizzato alla vigilia della stagione di raccolta delle prugne “Tempus brignarum cagarum matocis”.
Infine i momenti più intimi nel tepore di casa, quando finalmente potevamo trascorrere qualche tempo con papà la domenica mattina, dopo la sua settimana di lavoro a Milano, che raggiungeva col primo treno del mattino e da cui rientrava quando noi bambini eravamo ormai nel primo sonno.
Rimangono indelebili nella memoria i salti sulla sua pancia come sveglia del mattino, seguiti dalla passeggiata su viale Garibaldi con il vestito della festa, a volte prolungata con digressione golosa in Piazza Cavour per portare in tavola la panna montata o i bicciolani, la sosta davanti alla vetrina del negozio di giocattoli Nervi su Corso Libertà, che esponeva la collezione di macchinine, replica fedele dei modelli di grido. Al rientro a casa ci attendeva festoso il desco domenicale, che mamma aveva apparecchiato di risotto e immancabile bollito.
Il rito dei compiti si consumava sul tavolo della sala da pranzo, perché il salotto buono era rigorosamente precluso, aprendosi come uno scrigno segreto, esclusivamente per gli ospiti. Spesso veniva accompagnato dalla trasmissione tv Non è mai troppo tardi del maestro Manzi, con le sue lavagne di carta ed i gessetti, strumento di alfabetizzazione dell’Italia ancora arretrata soprattutto nelle campagne e nelle periferie urbane, dormitori riempiti di migranti giunti dal sud, attirati dal lavoro nelle fabbriche del miracolo economico.
La felicità di pasticciare con la farina, per aiutare mamma a impastare la pizza Catarì venduta nella scatola di cartone corredata di tutti gli accessori, compresa la bustina di origano.
L’ora pomeridiana dedicata alla tv dei ragazzi, che trasmetteva gli episodi imperdibili di Giovanna la nonna del corsaro nero e I racconti del Faro.
D’improvviso al termine della seconda elementare nel 1967 ho saputo che papà aveva ottenuto il trasferimento a Torino, una città che sperava offrisse migliori opportunità future per due figli in età scolare ed una sorellina in arrivo. Lasciavo Vercelli, nel cuore scolpita l’infanzia spensierata e giocosa, riempita dall’affetto di tante persone, da un clima di semplicità e grandi aspettative nel futuro, costruito con grandi sacrifici da papà e mamma, insegnamento rimasto saldo nel tempo, come una legge interiore impressa a fuoco.
È rimasta tramandata negli anni la passione calcistica per la mitica Pro Vercelli, che in due occasioni ho seguito allo stadio negli spareggi disputati per decidere la promozione in categoria superiore.
Il 6 giugno 1971 alla Stadio Comunale di Torino contro i rivali lanieri della Biellese, deciso alla monetina dopo due spareggi terminati in parità. Dal capannello di giocatori radunati a centro campo, emerge il capitano Bruno Rossi che esulta all’esito del sorteggio, facendo esplodere l’entusiasmo dei tifosi vercellesi e sancendo la meritata promozione in serie C. Una data celebrata nella memoria da tutti i tifosi della bianca casacca.
Il 7 giugno 2014 altro spareggio stavolta col Sud-Tirol, insieme a 4.000 spettatori entusiasti presenti al Piola assisto bardato di sciarpa, cappello e bandiera alla sudata promozione in serie B dopo un campionato dominato.
Si dice che alla fine si torna dove si è stati felici. Parafrasando una splendida canzone degli U2, non ho ancora trovato questo luogo dentro di me, ma di certo Vercelli abita una parte privilegiata dentro il mio cuore.