V – VILLA MISERIA
di monica resta.
Monica Resta
27 marzo 2025
Lettera V – Villa Miseria
Villa miseria sono due parole che in italiano significano esattamente la stessa cosa che in spagnolo.
Forse questa combinazione di termini non viene usata nello stesso modo, ma in Argentina ha un significato preciso: indica le baracche fatte di cartone, plastica, legno e lamiere ondulate di metallo. Le persone che non possono permettersi di affittare una casa occupano terreni demaniali e vi costruiscono quello che chiamano il rancho.
Io abitavo in un bel quartiere di Buenos Aires, in un bel edificio, in un bel appartamento, ma bastava prendere un treno per andare a trovare i miei cugini, che vivevano a una certa distanza dalla capitale, per vedere scorrere davanti al finestrino le villas miserias: casupole improvvisate, bambini scalzi e mocciosi che giocavano tra i rifiuti. Qualche cavallo qua e là, usato per spostarsi o per lavorare.
Chi nasce in Europa, credo, non conosce questa realtà e forse per questo nei giochi dei bambini europei non esiste un “facciamo finta di essere poveri?”
Noi, invece, giocavamo a vivere in una villa miseria.
Forse era un modo per esorcizzare quel destino, o forse anche per avvicinarci e cercare di capire cosa significasse davvero.
Noi, bambini del condominio — eravamo in cinque: Max, Sonia, Marcelo, Marina ed io, Monica, tutti più o meno della stessa età — eravamo molto uniti e passavamo il tempo inventando storie in cui eravamo i protagonisti.
Alcune erano fantasiose, come quella in cui interpretavamo gli animali del Libro della Giungla, altre invece erano terribilmente drammatiche, come la Villa Miseria.
Avevamo costruito un rancho sul balcone di casa mia: una minuscola abitazione fatta di legni, tavoli, sedie e cartoni. Era persino impermeabile, perché eravamo riusciti a procurarci una vecchia tenda da doccia che avevamo usato come tetto.
Avevamo perfino l’acqua corrente.
Sopra uno sgabello avevamo sistemato un recipiente, che riempivamo manualmente o grazie all’acqua piovana. Aveva un tubo che entrava nella nostra capanna: se lo abbassavamo e gli davamo un piccolo aiuto con una succhiatina, l’acqua cominciava a scorrere, poi per fermarla bastava alzare il tubo.
Ma nel nostro gioco eravamo poveri, poveri davvero, e quindi non avevamo cibo.
Avevamo fame.
In democrazia decidevamo per sorteggio (Ta te ti, suerte para tí. Si no será para tí, será para mí, Ta te ti chocolate con maní) chi avrebbe dovuto andare a chiedere l’elemosina al piano di sotto, dove la signora che aiutava mia madre era quasi sempre ai fornelli, intenta a preparare la cena o qualche pietanza per il giorno dopo.
Credo che qualche volta siamo stati cacciati dalla cucina senza la nostra elemosina, perché la signora si era stufata del via vai di bambini affamati.
In quei casi, la famiglia si riuniva nel rancho della Villa miseria e organizzava nei minimi dettagli quello che sarebbe stato il furto, per avere quello che non ci era stato dato: un pezzo di pane da dividere in cinque parti, bottini minuscoli che non avrebbero mai potuto placare la fame immaginaria di un’intera vita.
Solo giochi, che per noi erano esperienze vere.
Un modo per capire cosa significasse non avere la fortuna che avevamo noi.
Oggi non gioco più, ma ogni volta che spreco qualcosa, il senso di colpa mi assale, mi stringe lo stomaco e mi riporta il ricordo della fame.
Proprio come allora, nella nostra Villa miseria di legno, plastica e cartone.