L - LAUREA
di Stefania Bambace.
Stefania Bambace
LAUREA
È una giornata di tarda estate o di mite principio d‘autunno, quel 28 settembre 1995. Un sole tiepido, piacevole illumina il primo pomeriggio.
Mi guardo nel mio completo blu, quasi severo, mentre mi allaccio una collana di perle di fiume che schiarisca almeno parzialmente i miei tratti scuri e pronunciati, rivelatori della mia meridionalità volutamente messa in ulteriore evidenza dal kajal nero che accentua l’ebano degli occhi.
Ho quasi 28 anni e lo sguardo ancora profondo. I lunghi e ricci capelli da Medusa non ci sono più, ho scelto un taglio corto e sfrangiato tra l’elegante e l’irriverente.
Indosso ancora due appariscenti orecchini tondi di finte perle e do un’ultima occhiata allo specchio. Tacchi sufficientemente alti.
Sì, può andare, sono pronta. È il giorno della mia laurea.
Chissà perché fatico a pronunciare questa parola, le lettere mi si ricacciano in gola all’indietro come un nastro che si attorciglia. Forse perché quel nastro contiene frammenti, frames significativi che raccontano molto di più della mera conclusione di un ciclo di studi e andrebbero srotolati, riavvolti ed ordinati.
Mentre siedo al volante della mia Clio rosso fiammante in direzione di Palazzo Nuovo, dopo aver dato istruzioni ai miei genitori di raggiungermi solo poco prima delle 15, cerco di mettere a fuoco quelle immagini che documentano il mio percorso fino ad oggi.
La macchina sfreccia su Corso Re Umberto, la pastoia di ricordi ed emozioni sfreccia nella testa. La rabbia contro il sistema scolastico esplosa al termine del liceo, l‘apprendistato forzato nel mondo adulto del lavoro, lo sconcerto nello svelarne lo squallore delle dinamiche che lo governano, il rimpianto per un discorso rimasto incompiuto con il sapere, l‘azzeramento ed il ritorno ai libri.
L‘orizzonte si apre su Piazza Castello, davanti a me il tram n. 13 si sta infilando in via Po. Dalla mia radio Ligabue canta Certe Notti.
Rivedo il mio ingresso nell‘Università occupata dal movimento della Pantera. Gli accampamenti di prima mattina per guadagnarsi un posto decente alle lezioni più gettonate e più coinvolgenti.
La facilità di stringere nuove amicizie e di tenersi strette persone splendide, profonde, vere con cui condividere… condividere e basta, senza complemento oggetto, sarebbero troppi.
La pianificazione oculata ma appassionata del piano di studi.
E pur con tutte le sue mancanze, le sue ingiustizie, le sue imperfezioni, il sentirsi semplicemente nel posto giusto.
Scendo lungo i giardini reali.
Respiro profondamente la sensazione del massimo privilegio che è la gioventù. La gestione responsabile ma libera del tempo. Un tempo pieno ed una libertà totale. La sfrontatezza di sognare in grande.
Ho parcheggiato nel solito piazzale sterrato accanto all‘ingresso.
Quanti eventi sono accaduti in questi anni! Il mondo è in fermento, e lo è anche il mio mondo interiore.
Ho viaggiato, allargato in modo esponenziale la mia cerchia di amicizie, sono diventata di colpo figlia unica, con un fratello in giro per il globo e l‘altro in giro tra professione, matrimonio e fresca paternità.
Ne ho ricavato un rapporto rinnovato e splendido con i miei genitori.
Dopo un po‘ di giri a vuoto ho incontrato un grande amore a distanza che profuma di realtà.
Poi c‘è la straordinaria Juve di Lippi.
L’Italia si è congedata dalla prima repubblica.
Perché esito a scendere dalla macchina?
Sul sedile a destra il mio passeggero mi sorride: un libro di quasi 400 pagine, blu come il completo che indosso. Tesi di laurea, c‘è scritto.
La copisteria me l’ha rilegata pure male. Pazienza.
Io conosco il valore di ogni pagina. Ogni pagina racconta il momento in cui è stata scritta, l’atmosfera, gli imprevisti più o meno gravi che ne hanno ritardato la stesura.
Storie nelle storie.
Nella mia tesi c’è molto di più che un argomento. Me la stringo al petto come un peluche, so che lì dentro è contenuta tutta la mia fatica ma anche la convinzione della mia ricerca, anche se ad oggi, giorno della discussione, ancora non ho capito se al mio relatore sia piaciuta o no.
Il titolo è impegnativo:
> CODICI E FRAINTENDIMENTI. IL PROBLEMA DELLA COMUNICAZIONE TRA UOMO E DONNA IN TRE DRAMMI DI SHAKESPEARE.
Eh, magari fosse solo in Shakespeare!
Sono dentro.
Però è dentro di me che improvvisamente non c’è più nulla, il buio totale su ciò che ho scritto.
Poi, uno dopo l‘altro, arrivano gli amici. Paola è già all‘attacco con la sua macchina fotografica, ferma istanti che io non realizzo nemmeno stiano accadendo.
Ecco mamma e papà.
Lo devo a loro. Non mi sarei mai ritrovata senza di loro.
Tocca a me.
Entro. Pubblico dietro, sedia al centro, commissione intorno, ogni membro ha una copia della mia tesi in mano. Sembra un tribunale.
Incomincio a parlare, ritrovo un fervore che probabilmente rende credibili le mie argomentazioni, le parole sono scelte con cura amorevole, non sono io, ma la grandezza e la modernità di Shakespeare sovrastano ogni possibile replica, adornano mirabilmente una conversazione ben al di sopra della mia portata.
Io ho solo chiesto il permesso di farmene portavoce ed interprete.
Non so quanto tempo duri il dibattito ma ora siamo tutti invitati ad uscire.
Mi sento in una bolla. Ci richiamano, mi richiamano.
Accade un miracolo, il mio relatore, presidente di commissione, mi sorride!
Mi stringe la mano, ricambio energicamente.
Ho sentito la parola Dottore, significa che è andata.
All‘uscita mi sciolgo nell‘abbraccio dei miei cari.
Papà, il pacemaker ha funzionato, ce l’abbiamo fatta!
Lo penso ma non glielo dico, non a parole, almeno.
Mi parlano di un fragoroso applauso che io non ho sentito.
Chissà dov’ero…
Ora si va a festeggiare il giorno che, lo so già, resterà il più bello della mia vita.
Mi aspettano fiori, lettere, congratulazioni ed un lungo, commovente fax di Giuseppe dalla Cina.
Paola mi regala un ultimo scatto in bianco e nero inquadrandomi di spalle, mentre per l‘ultima volta scendo le scale di Palazzo Nuovo.
È buffo, all’apice della felicità ho la stessa malinconica sensazione di quando, da bambina, assistevo ai brindisi ed ai fuochi artificiali di Capodanno e mi chiedevo con candore infantile perché si festeggiasse qualcosa che finisce.