R - RIDERE

di Giuseppe Bambace.



Ridere 

Giuseppe Bambace




Ridere è una questione parecchio seria.
Dal punto di vista fisiologico non è una funzione complessa, sono sufficienti 12 muscoli; per intendersi fare il broncio è decisamente più faticoso, ne occorrono più del doppio.

Ma gli effetti sulla psiche di questo semplice gesto sono sorprendenti.
La scienza ha accertato che la risata stimola la produzione dei 3 neurotrasmettitori associati al piacere, alla motivazione e al benessere.
Una legittimazione del detto popolare che ridere fa bene all’anima e risolleva l’umore.

Ridere può avvenire in ogni momento senza preavviso, in senso filosofico uno stato senza tempo.
È una pulsione catartica, un fenomeno spontaneo, un’emozione che scuote la pancia e muove il diaframma, che pulisce i polmoni e genera una piacevole sensazione di benessere.

Difatti è una dimensione molto fisica, che viene associata spesso a parti del corpo senza formalismi e con metafore immuni dalle convenzioni sociali:
Ci si piscia dal ridere, si ride fino a farsela nelle mutande, ci si piega in due dalle risate, ci si ammazza dalle risate, si ride fino ai singhiozzi, si ride a crepapelle, si scoppia dal ridere, si ride sotto i baffi, si piange dal ridere, si fanno grasse risate.

Nella sua caratteristica peculiare di istintività, la risata può essere rivelatrice della natura intima di una persona, molto più di numerose sedute psico-terapiche.
Come aveva teorizzato il grande Dostoevskij:

“Se avete in animo di conoscere un uomo, allora non dovete far attenzione al modo in cui sta in silenzio, o parla, o piange; guardate piuttosto come ride.”

Mi è sempre piaciuto ridere, sin da bambino.
La sintesi poetica di questa attitudine è rappresentata nel film di Mary Poppins dallo zio Albert, un uomo rotondo con una personalità gioviale, che ogni volta che ride di gusto si solleva dal suolo e fluttua nell’aria e non riesce a scendere se non pensando a cose tristi.
Un elogio alla spensieratezza, quasi un’esortazione a privilegiare la spontaneità nelle vicende della vita.

Viceversa, mi hanno sempre insospettito coloro che non ridono mai, non le ritengo persone serie.
Roberto Benigni, in uno dei suoi monologhi della maturità, ne aveva colto l’essenza:

“Quando si ride si è nudi, ci si scopre. E poi quando si ride ci si muove, ci si scuote.
Ci si scuote come un albero e si lasciano per terra le cose che gli altri possono vedere e magari cogliere.
Gli avari e coloro che non hanno niente da offrire, infatti, non ridono.”

Al contrario del pianto, che spesso ci trova soli, la risata è collettiva, si ride insieme, in condizioni normali almeno in due.
Come sosteneva il mio padrino nella sua tipica arguzia pisana:

Ridi e il mondo riderà con te, piangi e sarai solo.

Ridere è condivisione, un atto beneficamente contagioso, il linguaggio dell’anima come scriveva Pablo Neruda.
Non azzardo che si tratti dell’antidoto migliore per contrastare l’odio tra Nazioni, ma certamente lo si può pensare come la distanza più breve tra due persone, forse tra due popoli.

Dunque sembrerebbe tutto un dipinto luminoso in una cornice preziosa.
Niente affatto.
Nella storia dell’essere umano, ridere è stata anche una forma di coraggio, osservato con diffidenza e osteggiato dalle autorità costituite.

In letteratura ne sono presenti molteplici esempi.
Tra i più illuminanti:
La saga dei giganti Gargantua e Pantagruele di Francois Rabelais, scritto a metà del 1500.
Pantagruele gode liberamente delle gioie dell'esistenza e manifesta la propria vitalità sfrenata attraverso il riso, metafora dell’ideale di un uomo tollerante e libero, in contrapposizione al dogmatismo della cultura ufficiale e alla censura del potere ecclesiastico e politico.

Nello stesso secolo, il filosofo e teologo Erasmo da Rotterdam istituì una forma di codifica del ridere, definendo meticolosamente le regole da applicare.
Ne fecero le spese soprattutto le donne, per le quali ridere era considerato sconveniente, sguaiato, perfino osceno.
L’antico pregiudizio verso la risata femminile è sopravvissuto per lungo tempo, sedimentato anche nelle fiabe popolari, affollate da principesse o figlie di re che non ridono mai.

Anche in tempi più recenti, ridere non era ritenuto atteggiamento appropriato nei luoghi istituzionali.
Rimangono disattesi i progetti educativi di Gianni Rodari, che esaltavano l’immaginazione e la risata come pilastri dell’educazione dei bambini:

“Il bambino, bisogna farlo ridere.
È più importante farlo ridere che rivelargli chissà quali misteri.
Il dialogo è ridere insieme.
Il riso è la cosa in più, il dono inatteso, al di là della protezione e della sicurezza.
Ridete con lui, è vostro per la vita.”

Ridere è certamente educativo, il senso dell’umorismo rivela ingegno, arguzia e capacità di analisi critica.
Nonostante le avversità della vita, mantenere una delicata attitudine comica dona equilibrio ed una sensazione liberatoria e rasserenante.

Il conio della saggezza è riappropriarsi del senso di leggerezza,

sottrazione di peso” come l’aveva definita Italo Calvino.

Il pensiero libero ed il senso dell’umorismo rimangono l’ultima linea di difesa in una società appiattita sul conformismo più becero, che esprime la risata con una faccina emoji sullo smartphone, riassumendo la fiduciosa e utopistica aspirazione umanistica alla libertà, in contrapposizione all’autoritarismo sempre più coercitivo.

Dario Fo recitava:

“Quando un popolo non sa più ridere diventa pericoloso.”

Espandendo questo concetto, si può teorizzare che la libertà di ogni società varia in proporzione al volume delle sue risate.

In conclusione, sono dibattuto tra due aforismi:

  • Il malinconico aforisma di Oscar Wilde:

    “L'umanità si prende troppo sul serio.
    È il peccato originale del mondo.
    Se l'uomo delle caverne avesse saputo ridere, la Storia avrebbe seguito un altro corso.”

  • Oppure il motto attribuito a Michail Bakunin, sbandierato dai movimenti di protesta degli anni ’70:

    “La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà!”

Alla fine credo che valga solo ribadire:

Ride bene chi ride ultimo.


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