F - FINE
di giuseppe bambace.
FINE
Di Giuseppe Bambace
La fine o il fine?
Confesso i miei limiti di competenza della lingua italiana, azzardo che fine è il solo
sostantivo che può essere usato in una frase di senso compiuto sia col genere femminile che
maschile, dal significato molto diverso ma in entrambi i casi di elevata potenza e di ampio respiro.
Treccani indica l’etimologia della prima nel termine latino Finis, tradotto come cessazione ma
anche limite, ultimo tempo di una cosa.
Non a caso nella scrittura la fine della frase è indicata col
punto, segno che invita ad un tempo di pausa, di riflessione, prima di andare a capo e scrivere il
seguito del racconto con un nuovo inizio.
Un moto che sottende scelte determinate, rappresentato da espressioni definitive:
“Voltare pagina, cambiare musica, inaugurare un nuovo percorso scolastico o professionale, rinnovare il guardaroba”.
Parafrasando un celebre film di Totò e Peppino De Filippo,
la lettera della vita quotidiana è disseminata invece di virgole e punti e virgola,
uno stato sospeso o interrotto, che rimanda a soluzioni di compromesso multiple,
alimentando ansie e tensioni.
Viceversa, come sarebbe meraviglioso applicare alla realtà il lieve aforisma di Oscar Wilde:
“Ridere non è un brutto modo per iniziare un'amicizia, ed è senz'altro il migliore per terminarla.”
La spensieratezza esorcizza la paura, ma purtroppo la fine esiste, è parte della vita, anche se la
dimensione tempo si estende all’infinito.
Con la fine si conclude tutto, finito, hai fatto quel che hai
fatto, hai sognato il tuo sogno.
Ma tra l’inizio e la fine esiste tutto ciò che sta nel mezzo:
parole, sogni, progetti, corse, inciampi, successi, fallimenti, sentimenti.
Una grande opportunità a cui arrendersi senza condizioni.
Mi viene in soccorso l’invocazione accorata nella poesia di Douglas Malloch:
“Sii sempre il meglio di ciò che sei”,
che traduce la mia intima repulsione nei confronti della
mediocrità di qualsiasi forma e sostanza.
Forse, maturando la piena consapevolezza della fine come evento ineluttabile ma naturale,
riceveremmo in dono l’armonia di un umanesimo autentico,
come ha sintetizzato Corrado Augias col suo consueto equilibrio:
“La solidarietà nasce dalla consapevolezza di un’identica fine.”
La nonnina vigorosa di una mia amica declamava un’interpretazione edonistica di questa
consapevolezza, sorprendente per la sua età:
“Mangia bene, caga forte, non aver paura della morte.”
Il secondo significato viene fatto risalire dalla stessa fonte Treccani alla parola greca
τέλος (telos), la cui traduzione più comune in italiano è "fine" o "scopo".
Nel film Lucy di Luc Besson, il professor Norman interpretato da Morgan Freeman nel corso della
sua conferenza sulla complessità e la bellezza della vita cellulare propone una visione affascinante
sul fine della vita stessa:
“Per gli esseri primitivi come noi la vita sembra avere un solo unico scopo: sopravvivere nel tempo.
Per raggiungere tale obiettivo la rete di cellule che compone lombrichi e esseri umani ha solo due
soluzioni: essere immortale o riprodursi.
Se l'habitat non è sufficientemente nutritivo la cellula sceglierà l'immortalità.
Al contrario se l'habitat è abbastanza favorevole allora sceglierà di riprodursi, tramandando a quelle
successive il sapere e l'apprendimento nel tempo.”
Tradotto in modo scanzonato:
“Improvvisare, adattarsi e raggiungere l’obiettivo”,
citazione dell’ordine impartito da Clint Eastwood nei panni del sergente Gunny alle sue reclute.
In qualunque modo si affronti il dilemma, il fine seguito dall’uomo civilizzato sembra
esclusivamente rivolto a trovare la propria realizzazione.
La differenza di prospettiva seleziona il mezzo utilizzato.
Molti affrontano il percorso con notevole sforzo di concentrazione, che coinvolge:
pensieri, espressioni, movimenti, desideri, intenti, strategie,
focalizzando ogni energia sul raggiungimento del proprio fine,
pagando un tributo molto elevato in termini di logorio e di nevrosi.
Altri si ispirano al Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry:
“Se vuoi costruire una nave prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato… e si metteranno subito al lavoro.”
Entrambe le prospettive presuppongono di immaginare mentalmente la meta,
prima di perseguire lo scopo.
Al contrario, nelle società contemporanee la visuale è a breve termine,
l’unico fine è conseguire il profitto in modalità istantanea,
come dire che non si sa dove si sta andando,
ma si corre alla cieca per andarci subito,
col rischio concreto di precipitare nel vuoto.
Difatti non condivido il concetto machiavellico:
“Il fine giustifica i mezzi”,
lo trovo intriso di slealtà spregevole, ha il fetore di prevaricazione e di abuso di potere.
Sto col discorso del Mahatma Gandhi:
“Il mezzo può essere paragonato a un seme, il fine a un albero;
e tra mezzo e fine vi è esattamente lo stesso inviolabile nesso che c'è tra seme e albero.”
Quindi un fine nobile si realizza se nasce da un mezzo giusto,
in uno stretto rapporto di causa-effetto.
Personalmente ritengo che il fine ultimo non possa prescindere
dal recupero dell’essenza dell’uomo universale,
per tramandare la grazia della nostra conoscenza terrena
alla generazione successiva,
cogliendo l’insegnamento della comunicazione della prima cellula.
Tuttavia, per quanto elevato sia il nostro scopo,
rimane irrisolta la domanda fondamentale sulle ragioni della nostra breve visita
su questo minuscolo pianeta:
Qual è il fine della fine?