E: È TEMPO D’ESTATE

di carmela bellitti.

 


È TEMPO D’ESTATE
di Carmela Belliti

È tempo d’estate, il cotone è già alto, le cicale e i grilli ci accompagnano dall’alba fino a notte fonda.

Una lucciola rischiara la mia piccola stanza, domani sarà un giorno di festa.
Il signore che noi fatichiamo a chiamare Lord ci vestirà a festa per esibirci di fronte a una nuova diavoleria chiamata fotografia.

Papà, mamma ed io, toglieremo i panni logori, sporchi, per indossare i vecchi panni della famiglia a cui apparteniamo, simulando una parvenza di benessere.

La vera festa sarà domattina, quando andrò a pescare di buon’ora nel fiume con mio padre, dove i pesci saltano per la loro felicità che sarà poi quella di Papà che ne riempirà la cesta.

Mamma cucinerà alla brace il pescato, io sdraiato sul prato guarderò il cielo e gli uccelli, immaginando di volare con loro fino ad arrivare al sole.
Toccare la libertà con le ali, con le mie piccole mani, e non proverò dolore per le piaghe delle spighe e delle spine del cotone.

Perché domani è tempo di festa. Con Papà e mamma per un giorno fingeremo di essere liberi, indossando i panni del padrone.

Dopo il giorno di festa

Quando mia madre mi ha svegliato prima dell’alba, ero ancora assonnato. Non ho capito perché aveva già preparato il sacco con la colazione per me.

Mi ha detto:
«Vestiti velocemente».
E così ho fatto.

Siamo andati lentamente verso la stazione. Altri ragazzi come me erano in attesa. Un omone ci ha raccolti e contati.

Allora mamma mi ha detto che sarei andato a lavorare con gli altri ragazzi da un nuovo padrone.

Ora capivo tutto: la foto, i vestiti nuovi, il pranzo, la festa d’estate… era una festa d’addio.

«No lacrime», mi disse mamma.

Trattenni il groppo in gola e deglutii. Lei mi abbracciò forte, quasi a volermi fare male. Fu allora che quell’omone disse:
«Basta donne, andate via. Faremo dei vostri bambini dei veri uomini».

In lontananza il treno sbuffava, fischiava, la sua presenza era sempre più vicina. Frenò, un odore di ferro e foglie secche bruciate mi invase le narici.

Tutti noi salimmo lentamente, voltandoci ancora una volta verso le nostre mamme per non scordare il loro volto, e partimmo sul treno che sbuffava pigro e indolente, quasi anche lui non volesse andare via.

Molti di noi ancora non capivano cosa stava succedendo, altri come me piangevano di un pianto trattenuto.
Per la prima volta lasciavo quella che potevamo chiamare Casa.

Dopo i pianti, la rassegnazione si fece strada tra di noi.
In un angolo, non lo avevo visto prima, uno smilzo ragazzino aveva un banjo. Cominciò a suonare delle nenie consolatorie, i canti che il pastore ci aveva insegnato in chiesa, misti a parole che lui stava inventando in quel momento.

Raccontavano già della nostalgia, del padre, della madre, del lavoro, della fatica.

Mi unii a lui e scoprii il dono della mia voce. Era un dono anche per gli altri che ci ascoltavano. Alcuni battevano le mani, altri ignoravano il canto, ancora presi dal dolore.

Il tempo passava, mangiammo qualcosa dal nostro sacco e si fece sera.

Il ragazzo col banjo si chiamava Hank.
Mi presentai anch’io:
«Il mio nome è Joshua», dissi.

Nei suoi occhi brillava una luce. Non era rassegnato, anzi mi disse che per lui era un’occasione di libertà.

Allora mi raccontò del suo proposito:
«Quando questa notte arriveremo ad una curva, il treno sarà costretto a rallentare. Tu ed io salteremo giù. Prima io, poi tu mi tirerai il banjo e poi salti».

Aspettammo il momento.
Ecco, disse Hank:
«È il momento giusto».

Aprimmo la porta e sul predellino lui si calò. Mi fece il gesto di buttare il banjo e poi anch’io rotolai giù in una nuvola di polvere che ci inghiottì.

Era questa la libertà: polvere, sterpaglie e buio.
Ma Hank rideva e tirò fuori da una tasca una mappa.

Mi mostrò il luogo da cui eravamo partiti, dove era diretto il treno e una città intermedia.
Secondo lui era la città della musica, la città della Libertà: New Orleans.

Avremmo dovuto camminare una notte e mezza giornata e poi saremmo arrivati.

Seguivamo le rotaie, poi incontrammo una strada. Hank guardò la mappa e disse:
«È di là che dobbiamo andare».

Un uomo si fermò e ci disse:
«Hey ragazzi, lo volete un passaggio?»

Hank rispose:
«Se vai a New Orleans lo accettiamo volentieri».

«Certo che vado a New Orleans! Dove pensate che porti questa strada? Siete musicisti?»

«Sicuro», disse Hank. «I migliori che lei abbia mai sentito in vita sua».

«Allora fatemi sentire un vostro pezzo».

Hank mi diede una gomitata e sussurrò:
«Attacchiamo col canto del pastore, ma facciamolo come l’abbiamo fatto sul treno».

Partì la nostra melodia, le nostre voci all’unisono.

L’uomo, dopo averci ascoltato, disse:
«Eh sì, non vi sarà difficile trovare un lavoro laggiù».

Arrivammo a New Orleans al tramonto.
Era un viavai di persone, vestite bene, con colori sgargianti. Ricchi empori, saloon, musica ovunque.

Un uomo nero, padrone del saloon, ci accolse:
«Ascoltateli e questa sera vi riempiranno il locale».

Sua moglie, grande e bellissima, aggiunse:
«Per ora diamogli solo da mangiare. Questa sera vedremo se saranno degni di esibirsi».

Quella sera, sul palco del saloon, il marito ci presentò:
«Ecco a voi Hank e Joshua! Per la prima volta a New Orleans!»

Hank attaccò col banjo e io a controcanto. Sembrava che avessimo sempre cantato assieme.

Le nostre canzoni erano fresche, limitate forse, ma parlavano di storie vere: delle rane del fiume, degli alberi, della terra, della fatica, delle feste, del treno, della speranza.

E dire che fino a due giorni prima il mio mondo era la casa del padrone, papà, mamma, la gente della fattoria e gli animali.
Ed ora eravamo nella città della musica e della libertà.

Non so cosa ci riserverà il futuro, ma non importa.
Finché il cuore è libero, finché hai la musica nel sangue e la voce di un angelo…

Non importa quanti soldi hai nelle tasche.
Di sicuro hai davanti a te qualcosa che si chiama: Libertà.

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